Quanto siete disposti a pagare una maglietta? Vi siete mai chiesti quale sia l’impatto ambientale delle vostre scelte di stile?
Queste, come tante altre domande relative al costo ambientale e sociale della moda “usa e getta”, devono essersele fatte anche Carlotta Redaelli e Simona Donadio mentre studiavano Fashion and textile desing.
Al NABA infatti, oltre a mettere alla prova la loro creatività, hanno avuto modo di approfondire gli aspetti pratici della produzione su larga scala. Furono lezioni illuminanti; cresciute nell’era del fast fashion, scoprire i retroscena del sistema moda le colpì profondamene.
La produzione del cotone: pur occupando il 3% delle superfici coltivate nel mondo impiega il 25% degli insetticidi e l’ 11% dei pesticidi usati complessivamente in agricoltura. Inoltre la sua coltivazione richiede grandissimi quantitativi di acqua. Tutto questo provoca l’inquinamento della falda acquifera, l’impoverimento e la salinizzazione del suolo e intossicazioni nei coltivatori.
Anche la lavorazione e la tintura dei tessuti richiede largo uso di sostanze chimiche che vengono disperse nella falda. La costante pressione sul contenimento dei costi ha portato poi allo spostamento della produzione in paesi poveri con condizioni di lavoro, norme di sicurezza e tutela ambientale non sempre accettabili, i notevoli costi umani sono stati testimoniati anche dal film-documentario “The true cost” (http://truecostmovie.com/).
La rivoluzione del pronto moda ha cambiato la produzione, ma ancor più profondamente ha stravolto la cultura del consumatore.
Basti pensare che nel Regno Unito la vendita di abbigliamento è cresciuta del 37% nei primi anni del 2000 e che solo la città di NY butta in discarica 200.000 tonellate di abiti ogni anno. Livia Firth, la paladina della moda sostenibile e fonte di ispirazione per Carlotta e Simona, ha dichiarato “Nel decennio passato assieme ai vestiti a poco prezzo ci hanno venduto anche una bugia, e cioè che abbiamo il diritto, in nome dei valori della democrazia di comprare una maglietta a due dollari. La verità è che non c’è niente di democratico nell’acquistare vestiti a prezzi così poco realistici. L’equazione è molto semplice: se vogliamo più abiti nelle nostre vetrine qualche lavoratore dovrà produrli più rapidamente. E se vogliamo pagare meno, i costi di produzione, e quindi anche i salari di chi produce, dovranno essere bassi”.
Di fronte a tutto questo Carlotta e Simona hanno deciso che lo stile non poteva prescindere da etica e sostenibilità e il loro futuro sarebbe stato nell’abbigliamento bio.
La loro scelta coraggiosa si è concretizzata nel marchio Made For Change (www.madeforchange.it) e in un laboratorio e showroom all’interno del quale prendono vita le collezioni: dal disegno, al cartamodello, alla confezione fino alla vendita.
Premiata nel 2012 come impresa innovativa dalla Camera di Commercio di Monza e Brianza, i riscontri positivi dalla clientela non hanno tardato ad arrivare.
Come ci raccontano le stiliste: “Sempre più persone iniziano a domandarsi dove vengono prodotti i loro vestiti e a leggere le etichette di composizione, soprattutto se alcuni di questi provocano loro irritazioni o allergie. Poi quando provano un capo in cotone biologico, firmato Made for change, sentono la differenza e non vogliono più tornare alle produzioni di massa”.
I capi made For Change sono realizzati con fibre naturali come il cotone biologico, la lana organica, il bambù o la fibra di cereali, tessuti che, nel con maggior rispetto dell’ambiente, garantiscono ottima qualità al prodotto finale che si presenta morbido al tatto, lucente, traspirate e anallergico.
La lavorazione di questi materiali (certificati bio secondo normative internazionali) avviene completamente in Italia, nascono cosi le collezioni “Made for Change”, prevalentemente composte da jersey che, da Coco Chanel in poi, è un fedele alleato per tutte le donne, veste senza segnare, è comodo e può essere anche elegante.
Un esempio? Il maxi dress comodo e furbo che con un gioco di tagli e linee particolari slancia e snellisce nei punti giusti.
Per un look basic e casual la t-shirt con lo slogan “Cool people wear bio” e il jeans in denim di cotone bio tinto in indaco (L’indaco è un colorante che si ottiene dalla fermentazione delle foglie di Indigofera tinctoria, utilizzato da oltre 4000 anni in Asia)
Carlotta e Simona hanno saputo unire con coraggio e praticità la loro creatività al sogno di una produzione etica e sostenibile. Seguendo il mantra “less is more”, con il blocco per gli schizzi sempre pronto trovano ispirazione nel mondo che le circonda, la natura, l’arte o un dettaglio imprevisto che attiri la loro attezione.
Ragazze concrete e coerenti scelgono green anche nella quotidianità con acquisti eco/bio anche in campo cosmetico ed alimentare, riciclando il più possibile (sono esperte di Upcycling) e sensibilizzando il pubblico anche attraverso il loro blog (https://madeforchangeblog.wordpress.com/).
In questi giorni stanno ultimando i prototipi della prossima collezione P/E 2016, qualche anticipazione? Ci attendono colori più intensi, qualche fantasia, lana organica per gli outfit più eleganti e cotone riciclato per i capi casual.
Immagini: Courtsey of Press Office
Comments by Susanna Pirola